Pietro Novelli

San Benedetto distribuisce la Regola agli ordini monastici e cavallereschi, 1635
 
Olio su tela, cm. 520 x 340
Iscrizione sul plinto, in basso a sinistra: D. P. BENEDICTO P. 0/D. SERAPHINUS GO(N) ZALEZ / DE PAN. DEVOTIONIS CAUSSA/P. ANNO MDCXXXV
 
Ubicazione: Chiesa, cappella del braccio destro del transetto

 

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     L’8 ottobre 1633 Serafino Gonzalez, presumibilmente cadetto della famiglia palermitana «originaria di Spagna», prendeva i voti e probabilmente dopo un biennio trascorso nel monastero martiniano, veniva trasferito a Ciminna, dove da priore titolare «consumò i suoi giorni fino al 12 febbraio 1691» (G. Sta- bile, in Pietro..., 1990, p. 220). Nel 1635 il Gonzalez, prima di lasciare la sede di San Martino delle Scale, volle forse perpetuare il ricordo della sua professione religiosa nel dipinto che fu eseguito dal Novelli proprio in quell’anno come testimonia la scritta incisa sul plinto (in basso) ed espressa nella seguente forma epigrafica: D(ivo) P(atre) Benedicto P(atroe)o D(ominas) Seraphinus Gonzalez / de Pan(ormo) devotionis caussa / p(erpetua)? anno MDCXXXV. Recentemente Vincenzo Abbate ha avanzato l’ipotesi che al nobile aristocratico sia da assegnare esclusivamente il ruolo di «committente ufficiale dell’opera» e di finanziatore della spesa, ben 240 onze, come risulta dalla notizia perpetuata dallo storiografo benedettino Michelangelo Celesia (V. Abbate, in Pietro..., 1990, p. 200). Lo studioso suffraga la sua tesi affermando che il Gonzalez era «troppo giovane (...) nel ’35 per poterne dettare soggetti e contenuti, che di sicuro spettarono all’abate o ai monaci più colti» (Abbate, 1990, p. 200). La pala (cm. 520 x 340) arreda la cappella dedicata a San Benedetto collocata a destra, larga m. 4,85 e profonda m. 6,25 (Tornamira, Cerimoniale..., 1671, p. 40). Secondo la testimonianza dello storiografo illuminista A. Mongitore prima di legarsi «co’ vincoli della solenne professione» eletto abate «per decreto a 30 gennaio 1709» si rese «infaticabile nel (...) nobilitare la magnificenza della chiesa» e ornò di marmi e «di due magnifiche colonne la cappella di S. Benedetto» (Mongitore, Chiese e..., QqE5, c. 57 r). Peraltro, il Mongitore nella descrizione della cappella aveva evidenziato che essa «ha due colonne grosse di marmo mischio e una macchina ben composta di vari marmi, simile a quella di S. Martino che gli sta di rincontro» (Mongitore, QqE5, c. 57 r). Fu abbellita - conclude l’erudito canonico - nel governo dell’abate Michelangelo Del Giudice onde sopra il cornicione si legge «Magno parenti, et magistro 1717 » (Mongitore, QqE5, c. 57 r). Questa iconografia non poteva certo mancare in età post- tridentina e alle soglie dell’incipiente cultura barocca in Sicilia, nel monastero di San Martino delle Scale. Perché poi l’opera sia stata affidata al Novelli, è facile intuirlo dal momento che l’artista nell’esecuzione dell’affresco del refettorio estivo prima e della tela raffigurante La Madonna con il Bambino ed i Santi Benedetto e Scolastica», poi, aveva ben espresso la spiritualità gregoriana.

La pala fu destinata ad arredare l’altare destro del transetto, su un percorso obbligato per i monaci che si recavano al coro. Il Novelli in questa tela raggiunge il livello più alto nella felice coniugazione di pittore e narratore della storia dell’Ordine benedettino. L’iconografia della distribuzione della Regola e infatti correlata a «l’itinerario spirituale del ritorno a Dio per mezzo dell’obbedienza sotto la guida di Cristo, al cui amore non si deve anteporre nulla» (S. Zincone, Dizionario..., 1983, p. 520). Ma rappresenta anche la sollecitazione all’ascolto e alla militanza cristiana che in questo dipinto vengono sinteticamente espressi mediante la gestualità che contraddistingue ciascun protagonista. Attorno alla figura di San Benedetto (postulante e militante) stagliata al centro della scena e nell’atto di presentare all’Eterno l’incipit della Regola (Ausculta fili praecepta magistri et inclina aurem) si sventagliano a destra il gruppo dei religiosi e a sinistra quello dei cavalieri. Un professo (?), fa da reggilibro; potrebbe trattarsi del Gonzalez come indurrebbe a ipotizzare la gestualità di San Roberto (istitutore dei Cistercensi), che lo addita al suo interlocutore, San Brunone, fondatore dei Certosini. L’ultimo monaco, dipinto di scorcio e rivolto verso l’osservatorio, e San Bernone, padre dei Cluniacensi. Sullo sfondo, ancora a destra, cesellate nella penombra, sfilano le sagome di Papa Celestino V (Pietro da Morrone), di San Gualberto fondatore del monastero di Vallombrosa e dell’orante San Romualdo istitutore di Camaldoli. Sulla sinistra del dipinto sono collocate in simbolica difesa del Tempio le granitiche figure dei cavalieri i quali, ostentando fierezza e sottomissione, suggellano l’impegno «a militare per il vero re Cristo Signore» con le «validissime e lucenti armi dell’obbedienza» (Regola, 3, 4). Inginocchiato ai piedi di San Benedetto e Sancho III di Castiglia fondatore e Gran Maestro dell’Ordine di Calatrava; alle sue spalle vigilano Gomez Fernandez e Alfonso I di Portogallo rappresentanti degli Ordini rispettivamente, di Alcantara e di San Michele. Di incerta identificazione sono gli altri tre cavalieri: Vincenzo Abbate (1990) esternando qualche perplessità, propone tuttavia di riconoscere in essi i rappresentanti degli Ordini di Montesa, di Avis e di Cristo. Potrebbe presumibilmente trattarsi della cerimonia che secondo la tradizione perpetuata da «Chrisostomo Henriquez nel suo Martirologio Cistercense (...) ne’ monasteri delle Spagne alli 26 del mese di novembre si celebra la festività, e la santa memoria di molti (sic) migliaia di cavalieri benedettini delle sacre militi e di Alcantara, di Calatrava, de Avis, di Monteria e di Christo, che difendendo il Santo Vangelo contro de’ Saraceni valorosamente per Christo sparsero il proprio sangue» (Tornamira, Historia..., 1673, p. 53). Peraltro, ribadisce il Tornamira, «in una bolla di Gregorio decimoterzo si legge che in abitu militari quandam religiosarum imaginem referant». Il Novelli «associa in gruppi di tre i dodici rappresentanti dei due Ordini (religioso e laico) quasi a voler evidenziare con questo numero la simbologia della Trinità: la felice coniugazione tra i numeri uno e due, ossia tra il cielo e la terra. Tre sono poi, le virtù teologali (fede, speranza e carità); tre sono altresì i titoli della tiara papale che simboleggiano gli attributi della Trinità: la potenza del Padre, la saggezza del Figlio, l’Amore dello Spirito Santo» (A. Mazze in G. Di Stefano, ’Pietro..., 1989, p. 210). Questa «sapiente disposizione delle figure in ritmo ternario», come aveva notato G. Di Stefano (1989, p. 15) non viene effettuata a caso dal Novelli; Fa parte di una prassi correlata al rituale dei voti solenni, come fa fede la dotta testimonianza di Pietro Antonio Tornamira e Gotho storiografo cassinese e decano del «Sacro gregoriano monastero di San Martino delle Scale di Palermo» nonché autore della Historia monastica. Scrive in proposito il Nostro: «Non si contentò il P. S. Benedetto, che da’ suoi monaci si facesse la cotidiana rinnovatione de’ voti solenni, ma ordinò ancora, che da loro ben tre volte si rinnovasse ogni volta, ch’occorresse nel monastero di ricevere alla solenne processione i Novitii, dicendo: Incipiat mox novitius hunc versum suscipe me Domine secundum eloquium tuum, et vinam, et non confundas me ab expectatione mea. E siegue ordinando che tutti li monaci presenti replichino ancora tre volte il medesimo versetto, e che nel fine v’aggiungano il Gloria Patri in honore,

e riverenza della Santissima Trinità, alla presenza della quale fanno di loro medesimi nuova offerta, pregando il Signore che li riceva nel numero dei suoi servi. Quem versum omnis Congregatio tertio respondeat, adiunges Gloria Patri» (Tornamira, 1673, p. 53). Il conte di Rezzonico in visita a San Martino il 26 agosto 1793 ne effettua un’osservazione attenta e precisa; quando l’intenditore d’arte si reca in chiesa «ammir[a] una (...) solenne pittura del Morrealese» collocata «all’altare sulla dritta» (Rezzonico, Viaggio..., 1828, pp. 25-26). Lapidario e positivo e il giudizio che egli riserva alla ritrattistica novelliana: «le teste dei monaci e dei cavalieri sono vivissime e parlanti, cosicché Tiziano istesso non le poteva far meglio»; anche l’impianto scenografico e la distribuzione dei registri compositivi sapientemente disegnati secondo lo schema modulare della maestosità rinascimentale ricevono il meritato elogio dell’austero conoscitore del classicismo: «la composizione grandiosa per un vasto fondo d’architettura, augusta per venerande facce de’ vecchi, e di uomini maturi, maestrevole pei gruppi ben distribuiti, solenne per una gloria colla Triade, e molti putti in aria, non lascia a desiderare eziandio nelle particolarità, e negli accessori» (Rezzonico, 1828, pp. 25-26). L’attenzione del Rezzonico si polarizza anche sulla simmetria compositiva del registro inferiore: «le belle pieghe degli abiti ben opposte l’une all’altre arricchiscono di molto la composizione» e riconosce al Novelli, portavoce del classicismo barocco, una «inaspettata» eleganza formale che riscontra nella stesura del registro superiore: «e solo notai nella gamba del Salvator sulle nuvole poca corruzione di forme». Tuttavia non esita a deplorare quella che a suo parere costituisce una sorta di imperizia nella distribuzione dei timbri cromatici: «poca intelligenza nell’azzurro delle vesti del P. Eterno, e del globo terracqueo, che pel colore non ben modulato confondesi col suo manto» (Rezzonico, 1828, pp. 25-26). Il Di Stefano (ed. 1989, p.

15) definisce accademica l’opera; lo stesso giudizio esprime Abbate il quale peraltro conferma che «il dipinto rimane tra i più accademici rispetto ad altre opere più toccanti e spontanee del Morrealese» (Abbate, 1990, p. 220). Presumibilmente l’elaborata costruzione cartesiana dell’impianto scenico basato sulla verticalità delle colonne, della lancia e della bacchetta e sulla orizzontalità creata dall’allineamento delle teste e delle mani, dalla stratificazione delle predelle, dalla geometria del pavimento raffredda il consueto lirismo novelliano, ma conferisce indubbiamente all’opera una sua classica solennità. Dichiara infatti il Novelli, in questa pala, la sua predilezione per la tradizione classica alla maniera del Guercino come si evince dalle epigrafi incise rispettivamente sul plinto e sulla pagina della Regola. E’ tuttavia l’impianto luminoso che conferisce solennità al dipinto. Ricalcando ancora gli stilemi guercinesci, l’artista veicola il bagliore sul saio del benedettino bianco e sui mantelli dei cavalieri. Sotto l’azione lievitante della luminosità, la consistenza materica del panneggio acquista volume e sofficità. Alla policromia chiaro- scurale visibile nel fondo della zona inferiore, di chiara evocazione vandyckiana composta da putti e cherubini, si contrappone la lezione riberesca ridisegnata nella corpulenta anatomia del Cristo.

Angela Mazzè

Bibliografia: Mongitore, QqE5 c. 57 r; Tornamira, 167), p. 53; Tornamira, 1761, p. 40; Rezzonico, 1828, pp..25-26; Zincone, 1983, p. 520; Di Stefano, ed. 1989, pp. 15-210; Abbate, 1990, p. 220; Stabile, 1990, p. 220.

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